Vajont 1963 - 2013: per non dimenticare

  

BREVISSIMA MA VERIDICA RELAZIONE SULLE INCREDIBILI VICENDE DELL’HONDÓN

  

 

A cinquant’anni dal 9 ottobre 1963, per non dimenticare le circa 2000 vittime della strage, pubblichiamo il racconto ispirato alla vicenda del Vajont che il professor Emilio Da Rold, molto prima quindi del monologo di Paolini (1997) o del film di Martinelli (2001), scrisse, e che venne pubblicato nel 1993 dall’Associazione Culturale TINA MERLIN.

 

  

   Le vicende che vogliamo raccontare qui si svolsero nella cosiddetta America latina (definizione ottima, peraltro) in un paese del quale non serve ricordare il nome. E ridurre in poche pagine una storia simile sarebbe cosa molto povera di significato se non fosse che questa storia, come le montagne, per essere veramente conosciuta dev’essere osservata piuttosto a lungo e da vicino ma, come spesso accade alle montagne, si lascia scorgere da lontano.

   Vi è in quel paese latinoamericano un’assai bella e piovosissima provincia, il Chapagua. I nomi dei luoghi che ricorderemo d’ora innanzi, situati nel Chapagua e nella confinante Provincia Montana del Noroeste, sono il risultato di una piccola parte  dell’opera di fray Antonio Campos, frate francescano nel Nuovo Mondo, uno degli uomini che l’ardente fede in Cristo spinse ad attraversare l’oceano (su una delle navi di allora) per dedicare alla conversione degli indi, e agli indi, la propria vita.

   Un suo manoscritto, miracolosamente venuto in possesso di chi scrive, getta una luce definitiva su di un fenomeno fin qui inspiegato. Nelle due province che abbiamo nominato, infatti, molti luoghi hanno due nomi: quello più antico, in una delle native parlate indie, e uno in spagnolo. In quelle terre, proprio perciò, i creoli, e cioè i benestanti bianchi discendenti dagli spagnoli, i meticci e gli indi, pur parlando lingue diverse, chiamano molti luoghi con nomi gemelli, mentre altrove nell’America spagnola creoli e meticci chiamano molti luoghi con i nomi delle lingue indiane, spesso senza comprenderne il significato.

   Dal manoscritto, superstite di lunghi secoli ed intitolato “Historia Geonomástica del Nuevo Mundo”, comprendiamo che dovette essere l’opera di fray Antonio a diffondere tra i vincitori bianchi ed i loro discendenti l’uso dei nomi spagnoli, che vivono tuttora una loro robusta vita accanto ai nomi originari. Né fray Antonio, uomo d’azione, capace di battezzare in un sol giorno migliaia di uomini dalla pelle di rame, viventi in luoghi difesi da montagne e fiumi spaventosi, s’addentrò in questa cospicua opera di reperimento, interpretazione e riproduzione di nomi per puro gioco o passatempo. Egli scrive infatti: “Per modo che essi, nazione assai esperta e saggia fra tutte le nazioni, mettendo nomi appropriati ai monti, ai corsi d’acqua e alle selve, riducono talvolta con un solo nome, cosa mirabile! alla conoscenza umana ciò che di quei luoghi si conserva nella memoria delle generazioni, e cioè la loro storia veridica, poiché nessun interesse avrebbero a consapevolmente mentire. Voglio dire che essi, apponendo nomi, di molti luoghi hanno rivelato il mistero”.

   Corre da un capo all’altro del Chapagua il Rio Aguafluyente, un bel fiume nel quale confluisce in un certo punto, da sinistra, un torrente che ha appena attraversato uno strettissimo e profondissimo orrido, che nella sua parte superiore è chiamato Garganta del Diablo. Quasi nello stesso punto, ma dall’altra parte, l’Aquafluyente riceve altre acque, appena uscite dalle strapiombanti Rocas Amarillentas (Rocce Giallastre), attraversando le quali si giunge là dov’era un tempo il Cerro (colle) Desmoronadizo, ai piedi del Monte Castillo.

   Tra queste montagne, e in molti altri luoghi, giunse l’azione di un uomo dalle meravigliose qualità, com’è raro trovarle anche associando due uomini diversi, un uomo che molto tempo dopo la morte di fray Antonio trasfuse il proprio ingegno nella vicenda latinoamericana di questo secolo.

   Stiamo parlando di Vìctor de las Vulpes de Africa, creatore di fantastici porti e fantasmagoriche città petrolchimiche nelle lagune del Venezuela, ministro di uno dei più famosi dittatori della storia americana, alle avventure del quale partecipò con grande dedizione per molti anni, e cioè fino a quando lo abbandonò, nel bel mezzo di un lungo e sanguinosissimo colpo di stato, passando con armi e bagagli, e regali da distribuire ai nuovi amici, nel campo dei futuri ma già ormai piuttosto probabili vincitori.

   La sua più potente organizzazione fu la K.A.P.O. la quale, creata da un uomo simile, aveva alcuni poteri chiaramente umani, benché mirabolanti, come il potere di essere, o di apparire, come dipoi si seppe, in regola con permessi, concessioni e licenze, e come quell’altro potere, quello di non essere fermata quando essa stessa violava leggi e permessi. Ma il grosso della sua forza era costituito da poteri di natura propriamente magica. Essa infatti trasformava i torrenti in laghi, i fiumi in torrenti e l’acqua in denaro e, senza ricorrere a strumenti antiquati come le guerre dei conquistadores di quattro secoli prima, bensì magari con l’ausilio di una piccola guarnigione della benemerita Guardia Civil, compiva la magia di rendere gli uomini stranieri nella loro terra.

   La prima volta che la K.A.P.O. comunicava agli indi delle montagne i prezzi che intendeva pagare per le terre e le case che voleva affogare nei suoi laghi, gli indi si mettevano a ridere. Alla fine risultava però che terre e case erano state vendute a prezzi ridicoli, e senza ridere.

   Le attività della K.A.P.O. introducevano fra quelle valli intorpidite e quei paesucoli morsicati dal freddo l’irresistito ed anzi irresistibile impulso del secolo presente, al cui confronto non vi sono Inca né Aztechi né Toltechi che tengano. Figurarsi poi i loro discendenti, fatti guardinghi dalle esperienze dei secoli andati.

   In quelle terre si insediavano dunque come nuove e possenti divinità i laghi della K.A.P.O. (detta dagli indi Kapò), che sostituivano ed anzi sommergevano gli antichi spiriti delle selve e delle rocce. E fu tra due montagne ai confini del Chapagua che la Kapò si mise a realizzare il suo prodigio più enorme, il lago dell’Hondón, quell’affluente di sinistra del Rio Aguafluyente che abbiamo già ricordato.

   Mente fervevano i preparativi per l’Hondón, il Cerro Desmoronadizo, con le viscere devastate dal lago sottostante, uno dei prodigi della Kapò, una mattina di Pasqua corse con tutto l’impeto della sua senile potenza incontro al lago, travolgendo l’indio che la Kapò aveva incaricato di sorvegliare i movimenti del luogo, che da tempo si era messo a camminare. “Desmoronarse” in spagnolo significa disfarsi, rovinare, crollare.

   I vari prodigi sparsi tra le valli, i laghi, le città sotterranee che facevano somigliare le montagne a formaggi bacati, tutto, in una vastissima zona, doveva avere il suo centro nel fantastico lago dell’Hondón , così da creare quello che la Kapò chiamava il Grande Hondón.

   Nulla nel resto del mondo avrebbe superato la prodigiosa maestà del lago. Esso sarebbe stato sovrastato, a sinistra, dal Monte Tocoy (una parte del quale era chiamata Roca Muerta, roccia morta, ossia marcia, secondo il manoscritto). A destra lo avrebbe sovrastato il Monte Sacudido (“monte scosso”, “agitato” nella nostra lingua, e infatti una pietraia ancor oggi perfettamente visibile su di esso rende ragione di un fremito che la montagna ebbe secoli fa).

   La mutevole e oscillante vita del lago dell’Hondón fu accompagnata fin dai primi tempi, e per anni, da frane, spaccature, terremoti, intorbidamenti delle acque. Era il Monte Tocoy che entrava, senza invito, nello svolgimento del miracolo.

   Né mentre il Monte Tocoy faceva sentire la sua voce, tacevano gli uomini cui erano stati demandati la preparazione, lo svolgimento, il compimento e l’auspicatissima prosecuzione indefinita del miracolo. “Se anche dovrai, a seguito del colloquio, attenuare qualche tua affermazione, non cascherà il mondo”, “Il volume della massa della frana deve quindi essere considerato di circa 200 milioni di metri cubi”, “anche se in linea teorica, si dovesse rinunciare all’esercizio del serbatoio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa una volta non tornerebbe tanto presto all’arresto assoluto”, “Ella può immaginare il mio stato d’animo in questa situazione”, “Le cose sono probabilmente più grandi di noi”. “mi trovo veramente di fronte a una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire alle nostre menti”, “E’ nella calma che maturano i grandi sconvolgimenti”.

   Tutte queste parole non si volatilizzarono nell’aria, perché furono scritte. Noi le abbiamo riportate nel loro ordine cronologico. Ma non si creda che quegli uomini, al centro di un miracolo così immenso, perdessero il loro sangue freddo o si dessero pubblicamente per disperati, trascinando nella costernazione gli indi, i meticci e i creoli della zona, gente dal cuore sensibile, e quindi pronta a commuoversi e ad emozionarsi. Gli operatori del miracolo mantennero invece il senso della discrezione ed anzi fecero vivere momenti di raffinato intrattenimento a quei loro amici che il governo, pensoso del pubblico bene nei paesi latinoamericani come altrove, inviava di tanto in tanto a verificare come il miracolo ridondasse in letizia per tutti. Addirittura memorabile fu la cena che gli operatori del miracolo e gli invitati del governo sbaragliarono nel famoso distretto turistico che presso la maestosa Cumbre de Cristal offre ad un’aristocratica clientela l’incanto e la magia degli spazi solenni della Cordigliera.

   E comunque non è per celia o per modo di dire che noi abbiamo fin qui parlato di magie, miracoli e prodigi. Una delle maggiori angustie in cui si dibatte lo spirito moderno è proprio l’incredulità circa i miracoli e la magia. Ora, a parte infiniti casi di ciarlataneria, magia e miracoli entrano ed escono continuamente dal nostro mondo. La Kapò, e fu una magia tanto più ammirevole per la sua semplice complessità, ovvero per la sua complessa semplicità, non soltanto riusciva a far parlare le montagne, bensì anche ne interpretava e ne traduceva la voce. Avveniva così che, mentre la montagna sull’Hondón parlava, la gente ascoltasse le traduzioni che la Kapò veniva facendo di quei rumori in spagnolo. E questo era il primo aspetto della poderosa magia: la Kapò, così come il mago opera negl’incantesimi all’interno d’un cerchio, si era posta al centro dell’attenzione e, mentre scatenava le forze prodigiose che le servivano per il miracolo, ripeteva continuamente quel che anche i suoi più torvi detrattori erano costretti ad ammettere, e cioè che essa, con i suoi uomini e le sue meravigliose possibilità, era al centro del miracolo e lo animava. E allora risultava duro pensare che la Kapò si fosse data alla creazione di un miracolo di quelle proporzioni senza la capacità di condurlo a termine. E poi, come ben si comprende, è essenziale che i partecipanti ad un’operazione magica collaborino attivamente o passivamente ad essa, perché altrimenti ne verrebbe compromesso l’esito. E qui appunto  stava il secondo aspetto della possente magia, perché gli indi e gli altri abitanti della zona non avrebbero potuto perdere completamente la fiducia nelle arti della Kapò senza credere che le forze fantastiche del miracolo si stessero preparando proprio contro di loro.

   E’ vero che proprio questo era ciò che molti abitanti pensavano spesso o di tanto, ed erano soprattutto quelli più in alto a farlo, quelli della valle dell’Hondón, quando consideravano senza le traduzioni della Kapò la voce e il volto della montagna, dove si era disegnata una lunghissima ruga. Ma poi, come molti finivano onestamente per riconoscere, e qui stava il terzo ed ultimo aspetto della gigantesca magia, altro è parlare e altro è fare, altro è mettersi ad ascoltare le voci della montagna e altro è la capacità di fare miracoli. E i miracoli veri, veri e immensi, soltanto la Kapò si dimostrava capace di farli.

   La mattina prima della notte in cui sul Monte Tocoy gli alberi smisero di piegarsi, le loro radici smisero di spaccarsi e la strada smise di deformarsi, un uomo spedì un telegramma alla volta di Nuova York. Quell’uomo aveva servito fedelmente la Kapò per anni e anni, e ora serviva infedelmente lo Stato, che aveva comprato i laghi della Kapò per un prezzo molto più breve a dirsi che a scriversi e li stava ancora pagando.

   Egli era un ingegnere creolo che in quei giorni riceveva quotidianamente rapporti sull’evolversi della situazione nella valle dell’Hondón. Di lì a poco tempo egli avrebbe conosciuto due uomini molto diversi tra loro. Uno era uno spassosissimo avvocato di origine napoletana, che la mattina del telegramma era il capo del governo e anni dopo sarebbe passato alla storia come uno dei più memorabili presidenti di repubbliche della storia americana. Il popolo, fertile di nomignoli com’è nello spirito dei popoli latinoamericani, lo chiamava Juanito el León. L’altro personaggio era il giudice Herrera. Il telegramma si concludeva con queste parole: “Che Iddio ce la mandi buona”.

   Alcuni giorni dopo un elicottero sorvolava la Garganta del Diablo, donde colava un orribile vomito, e poi giungeva al lago dell’Hondón, che non esisteva più, al di sopra di una montagna che non esisteva prima, e poi volteggiava là dove mai più avrebbe sfidato i millenni la roccia del Monte Tocoy. Perché tuonando con la stessa voce con cui deve urlare il demonio la terra era scesa e salita, l’acqua si era erta come una montagna e poi era esplosa a est, a ovest, a nord, e poi ancora a ovest, e a ovest e a est e a nord e a sud, e l’aria la guidava distruggendo terribile, terribile, quando il fuoco incendiò la notte e lunghe orribili urla di miserabili voci umane si fecero sentire in coro insieme al vento e all’acqua. E altre voci nelle case chiedevano ad altri di rimanere a pregare e a morire tutti assieme, e altri chiamavano altri verso la salvezza, come il caso volle, o la morte, e alcuni seppero e altri non seppero, e alcuni dormivano e alcuni si abbracciavano, e altri fecero incredibili viaggi nel fango o nell’aria. E andarono i ponti e le case e i palazzi e le fabbriche nell’orrbilile correre di quell’inferno liquido orribilmente smembrandosi. E alcuni secondi prima altri furono rapiti da un inferno di terra, e altri li presero le lingue e gli artigli da drago dell’acqua che scorticarono le montagne come se fossero fatte di burro, e molti ebbero, subito e insieme, morte e sepoltura. E cosa mirabile, non si compì la profezia della Carroña (carogna) di Yerto un’india dal soprannome sanguigno morta molto tempo prima, la quale aveva affermato che quando si fossero viste le carrozze volare e le donne portare i pantaloni Yerto sarebbe divenuta da villaggio una cittadina e poi sarebbe sprofondata. Perché Yerto era il paese più grande e il capoluogo della valle dell’Hondón, e rimase intatto, alto sopra i margini di quell’inferno, che fu enormemente vasto ed enormemente breve, e furono le sue frazioni e non Yerto ad essere rapite dall’acqua. E non fu Yerto ma una cittadina vera e propria, più grande di Yerto, che scomparve quasi per intero con altri paesi dentro l’acqua dell’Hondón venuta a violentare la valle dell’Aguafluyente. Nudi, quasi tutti nudi furono trovati i pochi vivi da soccorrere e innumerabili pezzi di innumerabili morti.

   Dal cielo dov’era l’elicottero si vedevano oltre la Garganta del Diablo minuscoli puntolini che si aggiravano sulla pietraia e cercavano di indovinare in quale luogo fosse stata la bottega del macellaio, la casa dei genitori e la chiesa costruita dagli spagnoli.

   L’elicottero atterrò con un intervistatore della televisione sulla costa del monte Sacudido, e il giornalista fece una domanda a un india che con gli altri indi abbandonava il proprio paese. Quel paese, per essere posto centinaia di metri in alto rispetto al lago, era stato lambito dall’acqua soltanto nella sua parte più bassa, e aveva avuto perciò alcune decine di morti, il che assurdamente a taluni forse non sembrava molto al cospetto della pietraia cui erano stati ridotti altri paesi. L’intervistatore chiese all’india, che scappava per paura di altri avvenimenti simili a quello da poco accaduto, perché fossero rimasti ad aspettare un cataclisma che, secondo quanto avevano detto altri indi intervistati, non aveva risparmiato i segnali per annunciarsi.

   E allora l’india, discendente di oscurissimi uomini che tra quelle montagne avevano placato abissi, creando sentieri, e sbudellato misteri, vibrando nomi, di fronte alle macchine da presa disse queste ripetibili parole: “Con la speranza che sapessero loro di più di noi”, parole che offrono la meravigliosa possibilità di dividere, tra i lettori di questa storia, gli imbecilli dagli altri, perché sono imbecilli coloro che trovano queste parole ovvie e dunque indegne di particolare attenzione, e non sono imbecilli, coloro che se le inchiodano immediatamente, e per sempre nella memoria.

   In quei giorni i nomi di quelle terre facevano il giro del mondo. Il quotidiano “La Unión”, organo del maggior partito dell’opposizione, che per anni aveva attaccato la Kapò, i suoi metodi contro gli indi, le sue pubbliche certezze contro la paura degli indi, denunciando negli articoli di cronaca locale della giornalista Marina Aguilar ("La K.A.P.O. spadroneggia ma i montanari si difendono”, “Un’enorme frana minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Yerto”, “Nessuno può sapere se il cedimento avverrà lentamente o con un terribile schianto”) il danno e il pericolo mortale costituiti dal lago, titolò in prima pagina su nove colonne:”E’ stato un assassinio!”

   Ma il partito al potere, la U.C.D.C., scrisse in un manifesto che affissero per tutto il paese: “Additiamo al disprezzo del paese gli sciacalli”. E un giornalista di nome Indro, più tardi celebrato come “maestro de nostros los periodistas” (cioè “di noi giornalisti”) in quel paese, espresse lo stesso pensiero, quasi con le stesse parole, sul settimanale “El Correo del Domingo”.

   Vi era uno scrittore creolo, in quel paese latinoamericano, originario della provincia del Chapagua, scrittore di montagne e di misteri e leggende, già allora famoso. Costui, don Serafín de la Bienandanza de San Pelegrino, due giorni dopo la catastrofe, in un articolo intitolato “Natura cruel” nella terza pagina del quotidiano “La Tarde”, assai vicino alla U.C.D.C., scriveva: “quella è la mia terra quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente”. E più avanti, paragonando la diga a un bicchiere (perché questo era il modo in cui la Kapò aveva creato i suoi fantastici laghi) e la montagna un sasso: “Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimoniava della tenacia, del talento e del coraggio umani. La diga dell’Hondón era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico. Mi ricordo che, mentre la facevano, l’ingegner Gutiérrez della K.A.P.O. mi portò alla vicina centrale di Soverdes dove c’era un grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione. Ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi. Intatto, di fronte ai morti del Chapagua, sta ancora il prestigio della scienza, della ingegneria, della tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato.

   Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto e ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi irregolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta della fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà.

   Intanto, e giustamente, il prestigio dell’ideatore, dell’ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell’operaio, giù giù fino all’ultimo manovale che ha sgobbato per la diga dell’Hondón [per fare la diga dell’Hondón e le altre non era bastato sgobbare, visto che ne morirono quarantuno di quelli che costruirono le dighe del Chapagua: forse però questo don Serafín lo ignorava]. Ma la diga, non per colpa sua è costata tutti questi morti. I quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e vi rimarrà per sempre”.

   In quei giorni cominciava dunque la lotta ad armi disuguali tra l’opposizione e pochi altri, da una parte, e tutti coloro che accusavano l’opposizione di sfruttare la moltitudine dei cadaveri per il proprio tornaconto politico. E sul quotidiano regalato quasi vent’anni prima da Victor de las Vulpes de Africa alla U.C.D.C. si scrisse la seguente frase: “quasi che nelle beate terre dove il sistema è diverso non avvenissero sciagure e tutto fosse perfetto a causa dell’avvento della rivoluzione”, frase che riportiamo perché dice la verità e proprio perché dice la verità, ritorna come un’inesperta maledizione su colui che la scrisse.

   In un famosissimo libro di uno scrittore di un altro paese latinoamericano si racconta che per difendere gli interessi di una compagnia bananiera statunitense durante lo sciopero dei lavoratori delle terre che la compagnia ha occupato senza chiedere il permesso a nessuno, l’esercito di quel paese, massacra nel villaggio la folla degli scioperanti, con donne e bambini, e carica i cadaveri su di un convoglio di treni che parte verso il mare. Uno dei capi sindacali riprende conoscenza, lievemente ferito, in uno dei mucchi di cadaveri in viaggio, riesce a saltare dal treno e a tornare al villaggio battuto dalla pioggia, e si sente rispondere da diverse persone che non c’è stata nessuna strage, “nessuno è stato ucciso”.

   Dopo alcuni anni, passati come un prigioniero nel segreto di una stanza della propria casa, mentre la pioggia cadeva senza tregua e l’esercito perquisiva il villaggio per dare completamento allo sterminio dei pochi scampati al massacro, quell’uomo, del quale il nostro scrittore spiega che era diventato propriamente invisibile agli occhi di coloro che non fossero i suoi di casa, anch’essi increduli della storia della strage, dice un giorno all’improvviso a un suo nipote: “Ricordati sempre che erano più di tremila e che li hanno buttati in mare”, e poi stramazza a terra, morto, altrettanto improvvisamente.

   Anche nel Chapagua, oggi, troverete molti uomini disposti a ripetere che “non c’è stata nessuna strage”, uomini che non sanno che l’ingegnere creolo che abbiamo detto riuscì alla fine a passare una parte della sua vita in un carcere con una sentenza che lo condannava in via definitiva anche per il reato di disastro colposo con l’aggravante della previsione dell’evento, perché Juanito el León, per dirne solo una, era abile oltre ogni dire, ma il giudice istruttore Herrera, per aggiungerne solo un’altra, fu un osso duro. E gli abitanti della Cina o delle Molucche continuano a ignorare questa veridica storia che si può scorgere da lontano, anche da luoghi spaventosamente lontani, perché è la storia del cadavere di un mistero, un enorme cadavere che per arte di magia fu eccitato e scagliato a sterminare gli uomini.

   Noi vogliamo lasciare ora al lettore il compito di stabilire quale rapporto vi sia tra quella lotta ad armi disuguali di cui si diceva prima e il presente incredibile stato di oblio di questa inimmaginabile storia, la cui fama è umiliata da un esercito di incredibili leggende velistiche, motoristiche, calcistiche, podistiche e ciclistiche, questa storia in cui, negli stessissimi modi che descrivono certi antichi profeti, fu uguagliata la potenza della collera divina, e che come le storie inventate fu preceduta da enormi segni e da profezie, profezie adatte allo spirito dei secoli andati e profezie adatte allo spirito del XX secolo. E poiché la letteratura (alla quale non pensava il nostro racconto, che altre esigenze lo sovrastavano) è un nobile e magico specchio di tutta la vita, vogliamo lasciargli poi anche il piacere di capire quale posto debba occupare in questa storia lo scrittore creolo don Serafin  de la Bienandanza de San Pelegrino, che morì molti mesi dopo la sentenza definitiva che abbiamo detto senza scrivere nient’altro d’importante sull’Hondón, lui, al cui nome ancor oggi si intitolano in Europa, da Parigi alla valle che accoglie l’acqua fluente del Piave, vie, lapidi e pranzi, lui, la cui fama è più vasta di quella della storia dell’Hondón in quanto scrisse di leggende e misteri tra le montagne, che per lui non erano “mucchi di pietra” le “rocce incredibili sotto la luna”.

 

CHI NON MUORE IN CUNA

HA DA VEDERNE QUALCUNA

(proverbio indiano della valle dell’Hondón)

  

  

 

 

Brevi cenni  storici sulla vicenda del Vajont [ndr]:

 

Che l'area, nonostante le sue qualità geometriche di ‘bacino idrico’ in termini di volume e posizionamento, fosse tutt'altro che stabile, lo dimostrano dei documenti storici risalenti addirittura a Catullo [Tomaso Antonio Catullo, naturalista, geologo e zoologo bellunese dell’800, ndr] , che parla di una frana che cadde sul fondovalle, sbarrandolo.

 

Sempre in zona, avvennero frane nel 1347, 1737, 1814, 1868. Si staccarono in particolare dal monte Antelao, provocando vittime e danni considerevoli.

 

  • Nella vicina vallata di San Lucano, avvennero frane nel 1748, 1908 e 1925.
  • Ma per quanto riguarda la vicenda del Vajont, maggiore interesse può essere accreditato alla frana di Pontesei (nella vicina valle di Zoldo), e quella del monte Toc del 4 novembre 1960.

 

La prima era correlata alla presenza di un bacino idrico, uno dei tanti del bellunese, per la produzione di elettricità. Le caratteristiche della frana sono state un'anticipazione di quella del Vajont. Alle ore 7 del 22 marzo 1959 una massa di 3 milioni di m³ si staccò dalle falde del monte Castellin e dello Spiz, su di un fronte di 500 metri e precipitò in 2-3 minuti nel lago di Pontesei, ovvero uno dei bacini artificiali. L'evento provocò la formazione di un'onda che sormontò la diga per almeno 7 metri, nonostante il bacino fosse a un livello di 13 metri al di sotto dell'orlo della diga. L'onda investì il povero Arcangelo Tiziani, sorvegliante della diga il cui corpo non fu più ritrovato.

 

L'evento ebbe una lunghezza del fronte di frana di circa 500 metri e la sua dinamica vide il franamento superficiale di un considerevole spessore di detriti morenici.

 

La frana del 4 novembre 1960 vide invece 800.000 metri cubi staccarsi dal monte Toc e cadere nel bacino artificiale provocando un'ondata di 10 metri di altezza. Seppure senza danni, questo evento era un chiaro avvertimento sulla precarietà della stabilità dei versanti, e questo con un livello della superficie del bacino che arrivava solo a quota 650 metri. Al contempo si aprì una immensa fessura perimetrale sulla montagna, disegnando una M, fessura lunga oltre 2500 metri sulle pendici settentrionali del monte Toc tra quota 930 e 1360 metri s.l.m.

 

A quel punto venne dato ordine di svaso del bacino, si intensificarono gli studi per comprendere meglio la struttura del luogo, e venne infine praticata una galleria di bypass per tenere in collegamento il bacino anche se fosse stato tagliato a metà da una grande frana, per impedire aumenti arbitrari del livello a monte della stessa.

 

La giornalista de l'Unità Tina Merlin scrisse al proposito di questi eventi:

 

Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l'esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli.

 

Già 2 anni prima della tragedia, Tina Merlin anticipò quello che sarebbe potuto succedere nella valle, con un articolo pubblicato sull'Unità il 21 febbraio 1961, in cui la giornalista denunciava la possibilità che la frana cadesse nel lago provocando enormi danni. La stessa Merlin perorò una campagna di informazione contro la diga per tutta la durata dei lavori di costruzione, consultando gli abitanti della valle al di sotto del monte Toc. Inascoltata dalle istituzioni, la giornalista fu denunciata per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico" tramite i suoi articoli, processata e assolta dal Tribunale di Milano.

 

Nel 1963, Indro Montanelli e Dino Buzzati assunsero una posizione critica in merito alle reali cause della tragedia, affermando il carattere di catastrofe naturale della stessa, e tacciando di "sciacallaggio" l'attività di alcuni giornalisti italiani, tra i quali appunto Tina Merlin, accusandola di speculazione politica per i suoi scritti.

 

(Fonte: wikipedia.org)

 

 

 

Il processo per il Disastro iniziò dall'Ottobre del 1968 davanti al tribunale de l'Aquila, e proseguì in fasi successive, concludendosi il 25 Marzo del 1971 in Cassazione. La fase istruttoria, quella che aveva accertato le responsabilità, era stata guidata dal Dottor Mario Fabbri, Giudice istruttore presso il Tribunale di Belluno. La Cassazione accoglieva l'accusa dichiarando la prevedibilità [in realtà, secondo l’esatta formulazione della sentenza, previsione, ndr] dell'evento, per la quale frana e inondazione costituivano un disastro colposo.

 

(Fonte:infolongarone.altervista.org)

 

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